Quando si parla di innovazione si citano solitamente degli esempi ben noti: la Silicon Valley, la Corea del Sud, Israele. Il mix che crea innovazione in queste aree è composto da università di alto livello, investimenti ingenti in ricerca, compartecipazione di pubblico e privato, legami tra università e aziende, un’economia liberista e la presenza di venture capitalists capaci di nutrire le nuove start-up.

Si vorrebbe importare questo sistema in Italia per tirarci fuori dal pantano, ma siamo sicuri che si possa adattare al Paese? Una prima considerazione, che sarà utile per il proseguio, è che esistono altre vie all’innovazione: un articolo interessante sul Sole 24 ore ci parla di India, mentre le storie di Cina e Giappone sono ancora diverse. Per esempio in Giappone lo stato ha investito massicciamente e direttamente nelle sue aziende, in Cina l’organizzazione industriale è stata imposta a tratti con la forza. Potremmo poi pensare che anche la Silicon Valley abbia i suoi problemi, e che parte del successo dell’area dipenda dalla massa critica e dalla cultura, aperta e internazionale, che vi si respira.Non intendo comunque discutere tali problemi ora, semplicemente mi preme sottolineare che è rischioso appiattirsi su un modello e volersi conformare ad esso.

Non potremmo allora immaginare un tipo di innovazione calato nella realtà italiana? Il nostro paese è noto per l’arte di arrangiarsi. Ed è una cosa che dimostrano i milioni di immigrati italiani, alcuni di successo, che sopravvivvono in qualunque paese. Lo dico da immigrato in Francia. Ma lo dicono anche tanti bei film neorealisti, vero  ammasso di innovazioni brillanti, in cui la genialità delle soluzioni trovate per alcune truffe dà da pensare. Uscendo dal neorealismo, per avvicinarci ai giorni nostri,  “Pacco, doppio pacco e contropaccotto” di Nanni Loy riesce sempre a sorprendermi. Nel paese c’è un giacimento di creatività che a volte viene sfruttato per fini poco nobili… Non intendo con questo articolo sminuire l’importanza di riforme e dell’introduzione di sistemi di valutazione più meritocratici né, tantomeno, giustificare i nostri ritardi. Ma se il paese continua, nonostante tutto, a sfornare invenzioni, e a coprire un 4% di commercio mondiale, è perché ha delle peculiarità che dobbiamo tenere in considerazione e che, prendendo in prestito modelli a noi stranieri, rischiamo di perdere. Un po’ come voler preservare la biodiversità contro la diffusione di monoculture o la ricchezza delle lingue contro l’egemonia dell’inglese. È una questione di efficacia: nel caso delle monoculture, se nasce un batterio resistente, possiamo dire addio a tutte le piantagioni nel mondo (come rischia di succedere per le banane).

Prima considerazione: l’artigianato

L’innovazione in Italia si fa nelle botteghe e nelle piccole industrie. È fatta da un mix di expertise e passione. C’è poca pianificazione. L’expertise si conquista sul terreno, non sui banchi di scuola. Come sviluppare oggi al meglio questa tendenza? Si potrebbero fare degli stage fin dalle superiori in botteghe, aperti a tutti i tipi di scuola, per toccare con mano. Possiamo quindi creare delle botteghe aperte, gestite privatamente, magari da aziende sponsor che mettono a disposizione il materiale e commercializzano le invenzioni. Queste botteghe dovrebbero essere piazzate nei distretti per aumentare la circolazione di idee. C’è poi chi propone questo punto di vista artigianale per la scienza: consiglio di leggere il testo di Zbilut e Giuliani “L’ordine della complessità”, o il manifesto del movimento “Scienza semplice“.
Seconda considerazione: la cultura
Siamo certi che ci sia la cultura giusta per innovare? No, se vediamo come gli italiani siano gelosi dei propri centri storici e odino l’architettura contemporanea. Bisogna saper affascinare la popolazione, trovare il giusto mezzo di comunicazione.
Soluzione: organizziamo concorsi popolari, grandi eventi, giornate dell’innovazione in cui ci si sporca le mani. Invece dei convegni su Business Angel mi piacerebbe avere dieci motori Alfa Romeo o Ducati aperti, esplorabili, smontabili parlando con meccanici esperti. A Parigi c’è il Palais de la Découverte che è un po’ così. Ci vogliono corsi di formazione all’informatica per diminuire il gap (anche in televisione!). E poi, colpire l’attenzione su temi di interesse: salute, ambiente, tecnologia. La gente risponde se ben stimolata.

Terza considerazione: la condivisione

In Italia siamo bravi a tenerci nascoste le invenzioni e a farci concorrenza tra paeselli. Cerchiamo di far circolare di più le idee, incentiviamo le interazioni tra università e la formazione di consorzi.
Soluzione: chi fa gli stage di formazione sul campo deve obbligatoriamente passare almeno sei mesi in un altro centro (e di conseguenza in un’altra scuola). Il paese deve imparare a conoscersi di più. I crediti formativi universitari devono essere parificati per poter fare esami in università diverse dalla mia.
Poi una cosa triste è che spesso gli italiani non si conoscono: grandi inventori sono più conosciuti all’estero che in patria. Per fortuna che ora c’è Wired che in parte rimedia. Ma bisogna diffondere meglio le idee che hanno avuto successo in Italia piuttosto che stare a guardare Steve Jobs e l’Ipad.
I nostri punti di forza: cibo, turismo, arredamento
Bisogna trovare nuovi mercati: in questo occorre molta creatività. Il nostro punto debole sono le lingue ma, chissà com’è, l’italiano all’estero si butta sempre. Rendiamo obbligatorio l’Erasmus (come disse Romano Prodi tempo fa) e troviamo modalità più simpatiche per insegnare le lingue.
Il lato umano
Noi italiani siamo così: abbiamo la tendenza a essere pigri, a non rispettare le scadenze. Però se siamo chiusi in una stanza in cui circolano vino e simpatia, spesso ci superiamo. Ci stimiamo poco ma quando ci attaccano siamo rabbiosi: la nazionale vince i mondiali quando tutto il mondo le dà addosso. Quando è data favorita esce agli ottavi con una Corea qualunque. Il fattore umano va capito e seguito: l’innovazione si può fare in una terrazza sul mare in Sicilia a base di cannoli, con allegria e ispirazione. Altro che deliverable, milestones: parliamo come mangiamo, visto che si mangia bene…

La razionalità

Agiamo spesso di pancia. Ma chi ci assicura che un comportamento perfettamente razionale sia sempre consigliabile? Non gli studi autorevoli di Gigerenzer, né i molti articoli che analizzano in che modo la ricerca scientifica accumula sciocchezze mettendo insieme tanti piccoli ragionamenti apparentemente razionali, per esempio quello di Rzhetsky. Non disdegnamo il nostro intuito: così come la storia ha costruito un patrimonio artistico unico, ha anche creato un accumulo di saggezza popolare invidiabile. L’Italia è stata invasa da popoli e culture diverse che hanno lasciato le loro tracce nelle usanze e nei modi di dire. Dico sì all’inglese, ma anche al dialetto! Un sunto: semplicità, rapidità, scalabilità
Un altro motivo per cui propongo di pensare a nuove ricette per l’innovazione è che il paese ne ha davvero bisogno. Perché se volessimo importare il modello Silicon Valley potrebbero volerci dei decenni. Per recuperare il valore dell’università, per trovare gli investimenti in ricerca. Immaginate solo la burocrazia per creare un sistema di valutazione della ricerca davvero efficiente.
Ci vogliono invece soluzioni che siano semplici, quindi veloci da attuare. E che siano replicabili. Una bottega se funziona può essere copiata ovunque, senza grosse spese di partenza: la sede la offre un comune, gli strumenti gli sponsor, chi ci lavora paga un piccolo abbonamento. Rendere obbligatorio l’Erasmus è una legge (bisogna trovare la copertura per pagare le borse, ma si tratta di alcuni milioni di euro).

Caveat

Non vorrei che la conseguenza di questo articolo fosse una moltiplicazione della fuffa. Perché oggi sono tanti i creativi, e spesso l’originalità è un alibi per la mancanza di rigore e tecnica. L’insistenza sul fare può però allontanare i creativi di facili costumi: in effetti aprire una bottega, trovare degli sponsor, farla funzionare senza caos, produrre dei risultati, è un’attività che scoraggia i chiacchieroni.

Scritto da Andrea Danielli

Fonte: Lo Spazio della Politica

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